La disabilità tra il “durante noi” e il “dopo di noi”: consigli per migliorare la legge 112

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“Uccidere il proprio figlio con disabilità è per me un atto di coraggio non di follia, un atto disperato per restituire normalità ad una vita terrena che quotidianamente ci violenta”.
“E’ un mostro, se lo tenga a casa”, sono state le parole di un sacerdote ad una mamma di un giovane con una grave disabilità: non cammina, non parla, ha crisi epilettiche e psicotiche. Lui è Mario ed ha trent’anni. Lei è Elena Improta, 57 anni, e tutti i giorni si impegna per dare una vita dignitosa al figlio: passeggiate, attività laboratoriali. Insieme ad altre mamme porta avanti battaglie a livello istituzionale e associativo. Raccontano le loro storie, il loro dolore. Hanno una chat comune dove condividono la quotidianità. L’idea del durante e dopo di loro è un tunnel che sembra non portare verso la luce. Ha fondato “Oltre lo sguardo”, impegnata sul territorio del II Municipio di Roma per sviluppare modelli di intervento integrati a favore delle famiglie fragili presenti sul territorio e promuove progetti di autonomia a Roma in cohousing e week end e soggiorni in Maremma (le location sono messe a disposizione dall’Associazione e dai familiari a titolo gratuito).
Elena capisce subito che durante il parto qualcosa non è andato bene e racconta che “la clinica non mi fece il cesareo e cercò di oscurare i problemi. Le consulenze successive hanno dimostrato che quella di Mario non è una patologia di tipo genetico, ma la conseguenza di un trauma subito al momento del parto, una sorta di ischemia intrauterina. Dopo qualche giorno dalla nascita, cominciarono le prime crisi epilettiche, segnale di questa lesione aperta, che solo con il tempo e la riabilitazione si sarebbe cicatrizzata, lasciando Mario come è oggi”.

Il caso di Elena
La Cassazione ha dato ragione a Elena: c’è stata la “mala gestio” del parto ma lei dopo 30 anni non ha vuto nessun risarcimento. E dopo il caso di Torino – la mamma che ha ucciso a martellate la figlia disabile – è sconvolta e preoccupata e dice “Non esiste il dopo di noi se nel durante noi non riusciamo a fare in modo che i servizi sociali accolgano in un percorso di sostegno e aiuto tutto il nucleo familiare! In particolare le donne, mamme, sorelle che a vita si caricano il ‘peso’ emozionale e fisico della cura”.

Elena ha un compagno con cui condivide questo percorso, sempre affiancati da psichiatri e psicoterapeuti. Loro non fanno una vita normale. Non escono da circa tre anni. Anche per andare a mangiare una pizza c’è bisogno di due badanti. Non rientrano nella legge 112 del “dopo di noi” che si rivolge alle persone con disabilità che però sono autonomi. I soldi stanziati non coprono il bisogno. Elena ha subito 4 interventi per formazioni tumorali, è portatrice sana di sclerosi “non abbiamo diritto a una vita sociale, al lavoro, a stare male, a curarci!”.

Chi si occupa di familiari non autosufficienti
In Italia, secondo uno studio dell’Università Cattolica di Milano e Jointly, ci sono 8 milioni di persone che si occupano di familiari non autosufficienti e la maggior parte lo fa in parallelo al proprio lavoro principale su un campione di 30.000 lavoratori di aziende italiane medio grandi, ha rilevato che 1 dipendente su 3 si fa carico della cura di un familiare anziano o non autosufficiente e nel 77% dei casi il lavoro di cura lo occupa spesso o quotidianamente diventando praticamente un secondo lavoro.

Il 25% deve gestire, contemporaneamente al familiare non autosufficiente, anche figli piccoli o adolescenti. Tutto ciò produce:
– uscita anticipata dal mondo del lavoro: nel 15% della famiglia si valuta l’uscita di uno dei due familiari per far fronte ai carichi di cura (Censis)
– rischio di burnout legato a maggiore stress, preoccupazione e fatica emotiva.

Oggi il disegno di legge sui caregiver prevede 700 euro ma niente pensione per la persona che assiste. Il termine si riferisce a tutti i familiari che assistono un loro congiunto ammalato e/o disabile. I caregiver (dall’inglese, coloro che si occupano di persone non autosufficienti) dei pazienti con demenza sono la grande maggioranza ma ultimamente stanno aumentando le assistenze a diversamente abili non autosufficienti.Le percentuali ci dicono che sono in genere donne (74%), di cui il 31% di età inferiore a 45 anni, il 38% di età compresa tra 46 e 60, il 18% tra 61 e 70 e ben il 13% oltre i 70.

L’esempio di Svezia e Danimarca
Mentre noi ancora parliamo di un disegno di legge in Svezia, come in Danimarca, esiste un sistema di assistenza continuativa a lungo termine fornito e finanziato dallo Stato. La Svezia ha addirittura sviluppato un sistema per individuare i caregiver e per valutare i loro bisogni.

Vi è un sostegno ai caregiver anche psicologico; inoltre vengono offerti formazione e momenti di sollievo e viene incoraggiata la comunicazione tra il personale socio-sanitario e i caregiver, allo scopo di creare delle istituzioni “carer-friendly”. Ci sono anche programmi di linee d’aiuto, offerti dal terzo settore e dal settore pubblico, con l’obiettivo di una sempre maggiore integrazione. Dobbiamo ricordare che la prima disabilità riconosciuta, dopo la seconda guerra mondiale, è stata quella legata a ragazzi down. Gli altri tipi di disabilità venivano trattati come patologie psichiatriche e i portatori di tali patologie erano considerati come “pietre di scarto.”

Sono quasi quarant’anni che l’inserimento scolastico è un dato di fatto nell’ordinamento giuridico e scolastico italiano, ma la legge 517/1977 è stata una tappa del lungo percorso di questa realtà. Nel 2016 nasce la legge del “dopo di noi” sulla spinta di alcune associazioni dopo gli eventi drammatici del 2014 : in due famiglie dell’associzione UFHa (Unione Famiglie Handicappati) i genitori si sono uccisi dopo aver ucciso i loro figli. Ma la legge è parziale, un punto di partenza che non soddisfa il mondo della disabilità. Sono stati stanziati soldi senza avere un censimento reale sul bisogno.

E anche sulla legge Elena Improta ha le idee molto chiare: “Dobbiamo far valere il principio che la persona disabile non è malata e normalmente non necessita di interventi sanitari, ma di percorsi riabilitativi, ricreativi e di socializzazione: non si può pensare di tenere in istituto persone adulte con disabilità, laddove non ci siano tracheotomie, peg e altre forti esigenze medico-sanitarie. Anche se perfino molti che vivono questa condizione di gravità scelgono di restare a casa propria. Non abbiamo ancora capito che non è la disabilità in sé a rendere infelice o sola una persona. Abbiamo la legge sul ‘dopo di noi’, che parla chiaramente di deistituzionalizzaizone, cohousing, abitazioni a moduli, fondazioni che attivano percorsi riabilitativi, dove per riabilitazione non si intende solo la parte sanitaria, ma piuttosto la possibilità che si offre alla persona di sperimentarsi. Noi non vogliamo i nostri figli in istituto, nel futuro che li attende, ma in moduli abitativi, condomini sociali, strutture di cohousing, in cui siano liberi di uscire (come non accade in istituto) e sperimentarsi in altre forme di quotidianità, che li faccia sentire degni di essere chiamate persone”.

(pubblicato su Tiscalinews il 10 dicembre 2019)