Il G20 si è concluso e nella conferenza stampa finale Mario Draghi ha detto “la cooperazione è l’unico modo per fare passi avanti”. Ha centrato le sue dichiarazioni sul multilateralismo, sul ritorno ad un dialogo tra i paesi, ribadendo anche di come si stia uscendo fuori dall’era Trump nelle relazioni internazionali.
Ma indubbiamente questo è stato il “suo” G20 e con lui dell’Italia. Una due giorni in cui gli occhi di tutti erano puntati sull’uomo delle “banche”, dei “poteri forti” e del “whatever we takes” ( che tanto ricorda il motto gesuita “todo modo”).
Un uomo che potrebbe essere il nuovo leader, trascinatore, di una nuova Europa. E il suo carisma, la sua capacità e forza di aggregare al tavolo delle discussioni mondi lontani, risiede anche nella sua formazione economica, sociale e lavorativa. Ha detto “ saremo giudicati per quello che faremo non per quello che abbiamo detto”
Da sempre possiamo dire che Mario Draghi ha esercitato la leadership senza cercare di essere “il capo” (come insegnano i gesuiti). Ha salvato l’euro con una frase di cinque secoli fa. Ha aspettato che lo chiamassero, come gli hanno insegnato a scuola, anche perché “non si candida” per il suo grande senso dell’umorismo (“Se io mi candido leader di qualcosa? Per carità…»), difficile da capire dalla nostra classe politica che ha deciso di prendersi talmente sul serio da non vedere nulla oltre sé.
Un uomo, Maro Draghi, che ha costruito la sua carriera politica in quello che si può definire, senza ombra di dubbio, l’establishment economico mondiale o meglio ancora ha vissuto e respirato l’aria dei “poteri forti”: da Banca d’Italia a Goldman Sachs, dal Fondo Monetario Mondiale alla Banca Centrale Europea.
L’essere cresciuto in quel mondo gli viene costantemente rimproverato. Viene accusato di essere l’uomo dei poteri occulti. Il banchiere senza scrupoli, un animale a sangue freddo ( e questo forse è un pò vero: ha uno sguardo da cui non traspare nulla, spesso i suoi muscoli facciali non hanno il minimo movimento).
Eppure la sua formazione, oltre quella dei gesuiti, è segnata dall’incontro con Federico Caffè, il grande economista italiano, uno dei personaggi più interessanti del Novecento repubblicano del nostro Paese. Sostenitore del pensiero keynesiano e del welfare state, antifascista, attento osservatore della società italiana, Caffè è stato un intellettuale poliedrico ed enciclopedico, capace di ragionare di economia cogliendo, però, le implicazioni umane, sociali e culturali essenziali per la costruzione di una società fondata sul benessere degli individui.
Caffè scriveva: “Al posto degli uomini abbiamo sostituito i numeri e alla compassione nei confronti delle sofferenze umane abbiamo sostituito l’assillo dei riequilibri contabili.“
Federico Caffè è anche ricordato come “l’economista di frontiera” per una visione anticipatoria dal punto di vista economico e sociale. Negli anni ’80 soffre la ripresa del e la magnificazione delle virtù taumaturgiche del “libero mercato”, spesso fonte di sperequazione sociale, disoccupazione e corruzione finanziaria. Una vera mortificazione per il più keynesiano degli economisti, impegnato per tutta la propria esistenza al sostegno di efficaci politiche anticicliche e del social welfare state.
E Mario Draghi è stato l’allievo prediletto del professore e questo G20 è per alcuni aspetti un tributo che l’allievo rende al maestro che gli ha insegnato a guardare il mondo in prospettiva, a credere ai propri sogni comparandoli con la realtà.
Lui che è cresciuto nel ventre del “potere” e che conosce la “bestia” e tutte le sue dinamiche, oggi che quel potere lo ha in mano ha deciso di metterlo a disposizione delle teorie del maestro: dal welfare state, alla economia espansionistica, dalla diminuzione delle diseguaglianze al multilateralismo. Mettendo in pratica quello che Caffè aveva sempre predicato e cioè “l’esistenza di una solida interrelazione tra il fatto economico, spesso snaturato a semplice “meccanica della contabilità”, e le sue componenti politiche e psicologiche”.
E su questo si gioca il suo futuro da leader europeo ma anche un po’ della politica italiana che dovrà cercare di far crescere una nuova classe politica che stia al passo con i cambiamenti globali e con una visione “multilaterale” e non locale.