Donne al comando: la spinta degli States senza dimenticare l’Europa

La nomina di Kamala Harris a vicepresidente degli Usa è un altro passo nell’empowerment al femminile nel mondo

(pubblicato su DonnexDiritti Nerwork il 3 marzo 2021)

Il 2020 è un anno che tutti ricorderemo per la pandemia di Coronavirus. Un anno difficile e complicato che ha anche il volto di alcune donne che sono o hanno raggiunto posizioni di guida e responsabilità tra le più importanti al mondo. Donne che fotografano un universo di resilienza, appassionato, forte, longevo.

Volti sorridenti, aperti come quello di Kamala Harris, 56 anni, prima donna vice presidente degli Stati Uniti. Figlia di immigrati, cresciuta tra la cultura afroamericana e le battaglie per i diritti civili, madre indiana e marito avvocato di origine ebraica. Una donna dalla voce pacata ma trascinante. Vederla giurare sulla Bibbia di famiglia, la mano alzata un viso che emanava energia e forza mentre pronunciava “So help me God”, ci ha fatto capire che veramente si volta pagina.

VOLTARE PAGINA ALLA CASA BIANCA IN UN MODO COSÌ POTENTE, È IL SEGNALE DI UN CAMBIO CHE SI PUÒ ESTENDERE A TUTTO IL MONDO COME UN DOMINO

Donne in primo piano dopo gli anni di oscurantismo trumpiano. E questo si era capito subito quando la coppia Joe Biden e Kamala Harris hanno scelto sette donne per lo staff che dovrà occuparsi della comunicazione. Una scelta netta, politica e culturale.

In questa ventata al femminile che parte da Wasghington, non è da sottovalutare la presenza della first lady, Jill Biden. Insegnante di inglese  – lavoro a cui non vuole rinunciare anche nei prossimi anni – e impegnata nel sociale, Jill Biden ha fatto la cameriera e la modella per pagarsi gli studi, ed è stata lei a scegliere la giovane poetessa Amanda Gorman per la cerimonia di insediamento. Il suo primo intervento ufficiale è stato incentrato sul ruolo degli insegnanti nella vita culturale e sociale del Paese, un discorso con un chiaro connotato politico che ha fatto capire che non sarà una first lady solo delle occasioni istituzionali. Altro punto segnato dalla nuova amministrazione americana, oltre la parità di genere, è quello che riguarda la  transgenerazionalità con la scelta di Janet Yellen, 74 anni, a Segretaria al Tesoro, mentreAvril Heines, 51 anni sarà all’Intelligence per gestire la sicurezza nazionale. Tuttavia anche l’Europa ha i suoi numeri, a partire da Ursula Von der Leyen, Presidente della Commissione Europea dal 1 dicembre 2019, che ha traghettato l’Europa nell’anno più difficile dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.

LA SUA COMMISSIONE È L’ESECUTIVO UE CHE HA LA PIÙ CONSISTENTE PRESENZA FEMMINILE DELLA SUA STORIA

Con un percorso politico e privato molto particolare, Urusula Von der Leyen si laurea in medicina nell’87 dopo essere passata per gli studi di archeologia e di economia, e con un marito e 7 figli, entra in politica solo nel 2001, quindi relativamente tardi, nei governi di Angela Merkel dove si è ritagliata un ruolo soprattutto battendosi per permettere alle donne tedesche di conciliare al meglio la vita lavorativa e la cura dei figli. Accanto a lei, sempre in Europa, c’è un’altra donna che detiene stabilmente le redini della Banca Centrale: Christine Lagarde che oltre a essere la prima donna a ricoprire questo incarico, è stata a capo del Fondo Monetario Internazionale nel 2011, e più volte ministra della Repubblica francese.

L’avvocatessa di Parigi è stata anche inclusa diverse volte nella lista delle 100 donne più potenti del mondo di “Forbes”, e nel 2009 il Financial Times l’ha eletta come “miglior ministra delle finanze dell’eurozona”, mentre nell’aprile 2016 è stata decretata dal Time tra le 100 persone più influenti del mondo. In Europa le donne ai vertici sono soprattutto al Nord: in Estonia Kaja Kallas è la prima premier della Repubblica baltica e ha prestato giuramento davanti a un’altra donna, la presidente del Paese dal 2016, Kersti Kaljulaid. A seguire è obbligatorio ricordare la Danimarca con Mette Frederiksen che guida il Paese dal giugno 2019; la Finlandia con la giovanissima premier Sanna Mirella Marin (classe 1985) leader di una coalizione di governo dove i cinque partiti della maggioranza sono tutti guidati da donne; l’Islanda con Katrìn Jakobsdòttir prima ministra dal 2017 e succeduta a un’altra donna, Jòhanna Sigurdardòttir, nominata per lo stesso incarico nel 2009; la Lituania con Ingrida imonyt premier dallo scorso 11 dicembre; la Norvegia con Erna Solberg a capo del paese dal 2013 insieme a Ine Eriksen Soreide, ministra degli Esteri e Marit Berger Rosland agli Affari Europei; la Slovacchia con la presidente Zuzana Caputova; senza dimenticare l’inossidabile Angela Merkel, Cancelliera della Germania dal 22 novembre 2005.

A SCORRERE QUESTI NOMI SI HA L’IDEA CHE SIA IN ATTO UN CAMBIO DI PASSO DOVE LE DONNE, SEMPRE PIÙ PRESENTI NEI RUOLI CHIAVE DEL POTERE, POSSONO DAVVERO DETERMINARE UN REALE E INARRESTABILE CAMBIAMENTO CULTURALE PROFONDO

La domanda è: in Italia cosa succede? Le donne con ruoli apicali sono pochissime, ma le donne sono il motore del Paese nel campo della medicina, della scienza, della ricerca, industria e ovunque ci sia una spinta in avanti, come Maria Luisa Pellizzari, la prima donna Vice Capo della Polizia. Difficile qui pensare a una Presidente donna alla guida del Paese, quando ancora si applica il teorema che se una donna prende una decisione è perché dietro c’è sempre un uomo. E questo accade non nell’assoluto silenzio ma in una forma di assuefazione e nella convinzione che queste battute siano semplicemente un dato di fatto condite con frasi “goliardiche” su cui ridere quando c’è davvero poco da ridere.

UN RITORNO AL PASSATO A CUI PURTROPPO  ALCUNE DONNE ADERISCONO DESIDERANDO DI DIVENTARE OMOLOGO DEL MASCHILE

perché nella loro testa la parità è parlare e muoversi come gli uomini, ammiccando al loro mondo e dimenticando di essere se stesse. La parità passa per la diversità e per essere le prime a riconoscere il proprio ruolo nella società e il proprio valore salariale. Forse può essere questo l’obiettivo: riconoscersi e riconoscere le altre donne e non “uniformarsi” a una società maschilista dal pensiero unico.