“Sono stato un bracciante infiltrato, ecco cosa succede. Il caporalato? Colpa della Bossi-Fini”.

braccianti

“In capo a tutti c’è Dio, padrone del cielo. Questo ognuno lo sa. Poi viene il principe Torlonia, padrone della terra. Poi vengono le guardie del principe. Poi vengono i cani delle guardie del principe. Poi, nulla. Poi, ancora nulla. Poi, ancora nulla. Poi vengono i cafoni. E si può dire ch’è finito.” Con queste parole, Ignazio Silone, descriveva la condizione dei contadini nell’agro del Fucino negli anni 30. Gli stessi anni della bonifica dell’Agro Pontino e per cui arrivarono dal Veneto e dal Friuli tante famiglie che poi hanno reso questa zona produttiva e fertile. Tanto fertile che a Fondi, in provincia di Latina, c’è il 4 mercato ortofrutticolo d’Europa. Ma non solo anche la zootecnia e il settore florovivaistico hanno qui una delle loro massime espressioni. E come il Fucino anche l’agro pontino è terra di braccianti.

E giovedì un’operazione di polizia , sul caporalato, ha portato all’arresto di 6 persone, tra cui un sindacalista di Latina e un ispettore del lavoro, con 50 indagati tra imprenditori agricoli, commercialisti, per associazione a delinquere finalizzata allo sfruttamento del lavoro della manodopera straniera, oltre a estorsione, autoriciclaggio, corruzione e i reati tributari. Uno squarcio su un fenomeno che fino ad ora ha visto colpiti soprattutto i caporali il “mondo di mezzo” tra imprenditori e braccianti. Ieri sono finiti in manette “i colletti bianchi”, persone con ruoli rispettabili nella società, a cui magari ci rivolgeva per un consiglio, pensando così di essere tutelati.

L’Agro Pontino, come dice il sociologo Marco Omizzolo, ricercatore Eurispes e responsabile scientifico della coop. In Migrazione, è storicamente luogo di bracciantato solo che negli ultimi 30 anni siamo passati da manodopera italiana a quella indiana sikh (ad oggi sono 30 mila, ossia la seconda comunità d’Italia) sino ad arrivare ai richiedenti asilo africani, oggi i più fragili della filiera lavorativa.

Il quadro cambia bruscamente il 18 aprile 2016 quando con uno sciopero storico, il primo in Italia di questa natura, 4000 lavoratori scendono, grazie ancora alla coop. In Migrazione e alla Flai Cgil, in piazza a Latina incrociano le braccia ribellandosi ai caporali e ai “padroni”. Da allora gli indiani vengono considerati ribelli, perché si sono organizzati, si sono rivolti alle associazioni. Hanno avuto il coraggio di dire no.

Omizzolo, quali erano le condizioni di vita che hanno portato a questa epocale rivolta?
La storia emblematica è quella di Balbir Singh, vissuto per 6 anni in una vecchia roulotte, posizionata all’interno del terreno del suo “padrone”, senza acqua luce e gas, dove pioveva dentro, con i documenti sequestrati, mangiava gli avanzi che trovava, si lavava con l’acqua delle mucche e veniva pagato solo 150 euro al mese. Dopo la rivolta del 2016 si rivolge a In Migrazione, che parla con i carabinieri che letteralmente lo salvano dalla condizione di schiavitù in cui era ridotto, si costituisce parte civile nel processo contro il suo titolare e gli viene concesso il permesso di soggiorno per meriti di giustizia. Balbir, in questo modo, ha dato un segnale molto forte anche a noi italiani: è la dimostrazione che il loro contributo è fondamentale anche nel contrasto all’illegalità e alle varie fore di ingiustizia sociale del paese che li ospita.

Omizzolo, lei ha fatto un’esperienza personale unica. Si è infiltrato tra i braccianti indiani
Si sono stato un bracciante infiltrato tra i sikh pontini, sono stato anche in Punjab e ho capito bene il rapporto che si stabilisce tra il trafficante di esseri umani indiano e il padrone italiano. Quando io ho iniziato c’erano braccianti che venivano pagati 0,50 centesimi l’ora. Oggi qualcosa è cambiato ma non molto. La paga lorda è di 9 euro ma alla fine al lavoratore vanno solo 3,50. E il contratto di lavoro non può, purtroppo, essere considerato solo e sempre un passo avanti per il lavoratore. È un’arma di ricatto perché se il padrone non te lo rinnova tu perdi il permesso di soggiorno, diventi clandestino, è un danno per la tua famiglia e se sei vittima di tratta non puoi pagare il tuo debito e la tua famiglia in Punjab deve pagare per te e rischia pressioni o intimidazioni. Questo a causa di una legge, la Bossi-Fini, che ancora prevede il reato di clandestinità.

Ma i “padroni” cosa dicono?
Ho cercato di intervistare anche i padroni. Loro hanno due tipi di risposta. La prima: noi abbiamo fatto questa vita, quando siamo arrivati qui per la bonifica, ora lo devono fare anche loro. Definiscono la vita quindi come una punizione. La seconda: se vengono qui allora nei loro paesi stanno peggio quindi non si possono lamentare del tipo di vita che fanno. Si autoassolvono.

L’agropontino è anche terra di mafie
Nel nostro territorio sono presenti tutti dalla ‘ndrangheta alla camorra, dai Casalesi a Cosa Nostra e alla Sacra Corona Unita, alle mafie straniere. Parliamo di un aggregato che può essere denominata “la quinta mafia”. Abbiamo sentenze, passate in giudicato, che ci parlano degli intrecci tra le famiglie Riina,Tripodo e Schiavone che gestivano la logistica dell’ortofrutta che usciva dal mercato di Fondi. Ma dobbiamo dire che non tutte le agromafie sono mafiose in senso stretto ma ci sono imprenditori che, pur non appartenendo al crimine organizzato, applicano lo stesso metodo con la scusa che “ non puoi non sfruttare se vuoi rimanere nel mercato.” Ma ci sono imprenditori che dimostrano come invece si può mettere insieme legalità, trasparenza e libero mercato. E sono loro che vanno sostenuti e ringraziati.

Omizzolo, l’importanza dell’operazione di Latina?
Sicuramente avere messo in luce le collusioni che coinvolgono sindacati, ispettori, imprenditori, liberi professionisti. Quelli che io definisco “il mondo di sopra del caporalato”, gli insospettabili che coprono la nuova “schiavitù”. Altro punto il fatto che siano stati sequestrati i beni di queste persone e aziende, per ben 4 milioni di euro, che fa capire che i loro patrimoni possono essere attaccati e questo è per loro un segnale che non hanno più immunità. Ricordo che secondo l’ultimo studio Eurispes il business delle agromafie in Italia arriva a contare circa 21,6 miliardi di euro l’anno. E ancora, e di grande importanza, l’aver messo in luce il rapporto tra l’accoglienza, la peggiore, e il mondo del caporalato, dove persone già fragili, perché lontani dalle loro case, sono ancora più facilmente “sfruttabili” perché in attesa di un documento che potrebbe anche non arrivare mai.
(pubblicato su Tiscalinews del 18 gennaio 2019)