Banche, le mani sui beni confiscati

Sicilia occidentale. Calabria locride. Campania casertano. Lombardia varesotto. Emilia Romagna, modenese. Lazio litorale pontino. Tante confische, tanti beni tolti alle mafie, tante attività che tornano ad essere “legali”. Un esempio fra tutti la “Calcestruzzi Ericina”, nelle mani di Vincenzo Virga uomo dell’ultimo grande boss Matteo Messina Denaro, e poi passata allo Stato. Uomini contigui alla criminalità organizzata tentano di convincere l’allora Prefetto, Fulvio Sodano, a disfarsene. Ma lui ha tirato dritto, l’ha fatta funzionare nonostante i tentativi di farla fallire e di deprezzarla (dalla testimonianza di Antonino Birrittella ex mafioso oggi dichiarante di giustizia).

Il Prefetto ne ha voluto fare un esempio per il territorio. Il prezzo pagato è stato l’allontanamento dalla città, diciamo che non era in linea con il pensiero dominante, ma la Calcestruzzi ha resistito e grazie a Libera, don Ciotti e ad una banca, Unipol, oggi è sul mercato, produce inerti anzi, come dice il suo nome Rose, fa recupero omogeneizzato di scarti edilizi.

Ma quanti beni sono in questa situazione? Quanti hanno goduto di appoggi come Unipol? Don Luigi Ciotti si batte da anni dicendo che oltre il 30% dei beni confiscati non può essere usato perché gravato da ipoteche bancarie. E vista la legge sulla vendita dei beni confiscati loro saranno le prime a partecipare alle aste ricomprandoli anche in nome e per conto di personaggi in odor di mafia. Ma come è possibile parlare di Agenzia dei beni confiscati, parlare di togliere i beni ai mafiosi, inneggiare alla vittoria ad ogni confisca effettuata e non porsi il problema dell’utilizzo? Ma soprattutto come è possibile non affrontare il problema banche? Sono loro il punto nodale della gestione dei beni confiscati. Facciamo un esempio, sempre siciliano ma valido per tutti i territori.

Supermercati Despar gestiti da Grigoli, il “cassiere” di Matteo Messina Denaro. Confiscati, dati in gestione ed ora quasi al fallimento. Perché? Perché le banche non sono più così elastiche come quando apparteneva ai mafiosi. Lo scoperto non è ammesso. E in più i fornitori che una volta aspettavano anche 90 giorni per essere pagati adesso pretendono il pagamento entro 30 giorni (quando va bene). Una volta il pane, quello di Castelvetrano, si comperava solo in quei supermercati. Ora che è noto che il boss non li gestisce più si può andare a comperare il pane ovunque. E gli affari calano e si rischia la chiusura anche perché essendo sotto amministrazione giudiziaria non esistono pagamenti in “nero” né per fornitori né per lavoratori. E le tasse si devono pagare tutte.

Quanti uomini, imprenditori soprattutto, decidono di passare alla giustizia e si trovano sul lastrico perché le banche li considerano “a rischio”. Passare allo Stato è equiparato a non essere più un “buon pagatore”. La domanda nasce spontanea come potrà lo Stato battere la mafia, oramai sempre più finanziaria e imprenditoriale, se le banche abbandonano al loro destino chi non è più mafioso? E non sono parole di circostanza e di semplice demagogia ma sono le voci raccolte tra i tanti che hanno deciso di cambiare la loro vita e che per ottenere un finanziamento debbono produrre tanti di quei documenti che ti penti di voler essere un uomo onesto. Mentre d’altra parte ci sono aziende che ottengono fidi pur avendo sentenze passate in giudicato. “Due pesi due misure che sempre più ti fanno sentire l’inutilità di essere onesti” (Corrado Alvaro). Il problema non si affronta perché fare la guerra alle banche vuol dire toccare i fili della corrente. Perché le banche controllano i conti di tante persone che votano, che producono, che ti possono rifare la casa o arredartela.

E oggi si uccide molto di più con un conto corrente chiuso che con la pistola. Adesso si dice che l’Agenzia dei beni confiscati è la panacea di questi problemi. Ma già è iniziata la lotta per avere più sedi tra cui una a Palermo e forse a Roma. Non è che abbiamo, trasversalmente, creato un nuovo carrozzone? Tutto fumo e niente arrosto. Perché non chiediamo alle banche di diventare partner delle iniziative sui beni confiscati? Chiediamogli di tornare a fare quello che fu la spinta del Monte dei Paschi alla fine del ‘400. Aiutavano gli artigiani a diventare grandi e poi si riprendevano la loro parte. Non è un’utopia è un nuovo (vecchio) modo di gestire il futuro. Quello che gli americani chiamano “project financing” ma che è nato da noi secoli fa. Perché lasciare soli uomini come don Luigi Ciotti che hanno danno la spinta sociale al cambiamento? Adesso c’è bisogno di risorse. Non possiamo far morire un supermercato perché non è più dei mafiosi ridando così a loro quegli uomini che, da disoccupati, accetteranno qualsiasi lavoretto anche sporco.

Le banche hanno obiettivi finanziari ma vivono nella società e ci sono tante piccole realtà che dimostrano che è possibile fare affari ed essere vicini ai cittadini e questo senza dover scomodare il premio Nobel Yunus e il microcredito. Ma questo vale in piccole realtà, vale perché si incontra il direttore di banca che è anche un uomo giusto. Ma non vale per i grandi numeri.

Ultima provocazione perché il ministro Alfano non dice quanti soldi liquidi sono nel Fug (Fondo Unico di Giustizia) che provengono dalle confische? E quei soldi perché non vengono ripartiti in percentuale tra le terre dove sono avvenute le confische (non credo che la Lega possa opporsi: le confische sono anche al Nord) così come chiedono i deputati del Pdl Sicilia (cioè della sua parte)? Sono soldi che gestiti anche con le Banche potrebbero dare respiro ad iniziative economiche e sociali alle aree depresse ed oppresse dalle mafie. Altrimenti non ci rimane da pensare che è meglio far “aumentare” la disoccupazione: c’è più manovalanza tra cui scegliere e gli usurai avranno più uomini da “strozzare”. E a questo punto bisognerebbe pensare che lo Stato preferisce la criminalità organizzata alla legalità.