SPECIALE IRAQ- Benvenuti in Kurdistan 2

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Dibaga, campo profughi da trentaseimila persone. Siamo a sud di Mosul, a Ovest di Erbil e a Nord Ovest da Kirkuk.
Sono alloggiati nelle tende, anche in 12/15 in ognuna di loro ( d’altra parte non è inusuale un numero così perché secondo le regole mussulmane della composizione della famiglia non è strano dover ospitare anche tre donne con loro bambini e con un solo marito).

Qui arrivano gli sfollati di Mosul e Hawija. Arrivano a piedi, come possono, sui carri dei militari ( almeno quelli che erano a Mosul Est quando è stata liberata).
Qui le organizzazioni internazionali, visto il flusso continuo dei profughi che arriva, hanno finito le loro provviste di cibo. Sono intervenute le piccole ONG che lavorano in Iraq, come Focsiv che ha distribuito, tra il 28 e 29 gennaio scorsi, ben 1300 confezioni di viveri da 10 kg. composto da riso, olio, concentrato di pomodoro, lenticchie, grano trattato, fagioli, zucchero, sale, thè.
Le persone si sono messe in fila rigorosamente. I ragazzini si sono attrezzati con delle carriole –taxi per trasportare i pacchi.
Ed è in questo momento che è più evidente la struttura della società: gli uomini si affannano a cercare una carriola-taxi mentre le donne, quasi tutte velate, si caricano i 10 kg. sulle spalle e tornano nelle tende.
Questo spaccato di società è quello che si incontra ovunque. Le donne hanno reagito alla guerra, si sono adattate e arrangiate per sopravvivere. Gli uomini, molti dei quali hanno perso il lavoro, hanno ceduto ogni potere all’interno della famiglia. Molti sono caduti in depressione. Si sono arresi insomma.
Le donne sono maggioranza, come in molte altre parti del mondo. Ma esserlo in un paese in guerra cambia la prospettiva con cui guardi la vita. E lo si percepisce anche dai racconti delle bambine fuggite dall’orrore e devastazione del Daesh.
Bambine che raccontano, con apparente tranquillità, di come i miliziani imponevano lo hijab a tutte loro e di come le donne del Daesh fossero violente verso la popolazione.

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Bambine che parlano di decapitazioni di uomini sorpresi a fumare o di soldati che fratturano le gambe.
Sono calme, precise. Hanno ben chiaro che hanno attraversato l’inferno e sanno che non è ancora finito. Sono determinate anche nel loro essere pulite, attente a se stesse. C’è chi ha i disegni caratteristici sulle mani, fatti con un hennè fatto in casa, ma che dà la sensazione di una vita quasi normale.
Questa è la realtà dei campi. Nelle città non è molto diverso, anche a Kirkuk, città a maggioranza musulmana, dove le donne nella quasi totalità sono velata. Chi interamente, compresi i guanti, chi solo il capo. Ma sono poche quelle che accettano un futuro predestinato. Un futuro “velato” e “religioso”. Molte di loro vestono il hijab più come un segno di identità che come segno religioso. E’ abbinato a vestiti occidentali, a scarpe con tacchi alti , ad un trucco che mette in risalto occhi e labbra ed ad una visione della vita che non si ferma davanti alla guerra. “Il mio futuro è qui, per ora,vorrei fare qualcosa per il mio paese ma se avessi l’opportunità andrei a lavorare all’estero. Lascerei la mia terra, la mia famiglia.” Chi parla è un ingegnere civile che adesso lavora per un’organizzazione internazionale arrivata a Kirkuk con la guerra. Non si sente diversa dai colleghi con cui lavora. I suoi problemi sono gli stessi delle sue coetanee occidentali. Ti guarda dritto negli occhi durante l’intervista, non abbassa mai lo sguardo, non si tocca il velo, non si sente a disagio rispetto a chi non lo porta. E’ una giovane donna aperta al futuro e agli altri, disposta a confrontarsi.

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E come lei anche un altro ingegnere, circa 40 anni, dipendente dell’impresa di Stato che gestiste l’energia elettrica nella provincia di Kirkuk. Si è rimessa a studiare per un corso di aggiornamento su AUTOCAD, software di progettazione, “non mi voglio fermare. Non voglio rimanere indietro perché quando finirà la guerra ci saranno opportunità e io voglio essere pronta”.

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Tra di loro però c’è anche chi è estremamente religioso e alla domanda perché vesti il hijab e porti anche i guanti risponde “Perché è scritto nel Corano” e abbassa lo sguardo per non incontrare i tuoi occhi e,forse, anche gli occhi delle altre donne. Sono decisamente la minoranza le donne che seguono strettamente la religione, per di più giovani e di buona cultura. Segno di imposizioni familiari più che di scelte autonome che possono mutare nel tempo.
D’altra parte in Kurdistan le donne hanno sempre avuto un ruolo fondamentale nella società tanto che ad Erbil, nelle vicinanze della cittadella, la vecchia città fortificata, c’è un mausoleo all’aperto dedicato alle donne che nella loro vita si sono battute per questo territorio, per le sue tradizioni e per i valori di uguaglianza e tolleranza.

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(continua)
(pubblicato su malitalia.it e malitalia.globalist)